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Channel: Metal Skunk » Ciccio Russo
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Skunk Jukebox: the final shutdown

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Non sono né un grande esperto, né un grande appassionato delle forme più moderne del grind (a differenza di Nunzio, attualmente in giro per un ciclo di seminari sui Pig Destroyer nelle repubbliche caucasiche), però ogni tanto spunta fuori un gruppo con il quale, per ragioni più o meno valide, finisco per fissarmi. Mi era accaduto un paio d’anni fa con i Noisear, mi è capitato in questi giorni con gli ANTIGAMA. Se gli autori del mostruoso Subvert the Dominant Paradigm riuscivano a stupire e lasciare senza riferimenti pur partendo da una matrice, tutto sommato, abbastanza organica (la destrutturazione del genere operata dai Nasum), questi prolifici ragazzoni polacchi pescano un po’ dappertutto senza creare nulla di davvero originale, tra richiami al brutal ultratecnico degli Origin, chitarroni alla Meshuggah, musichette latinoamericane che manco gli Atheist di Elements e momenti di puro e semplice sbrocco. Il risultato, però, è piuttosto divertente, a patto che non lo si prenda troppo sul serio. Meteor, sesto disco dell’act di Varsavia, è in streaming qui, dategli un ascolto.

Pochi giorni fa il buon Charles vi ha resi edotti sulla sorprendente resurrezione dei Necromass, tornati con un nuovo album a diciassette anni da Abyss Calls Life. Non si erano invece mai fermati i corregionali HANDFUL OF HATE, un altro irrinunciabile pezzo di storia del black metal tricolore che, con l’imminente To Perdition, si prepara a festeggiare i vent’anni di una carriera esemplare, vissuta all’insegna della coerenza, dell’attitudine e di un attaccamento alle radici del genere che non ha mai impedito loro di sviluppare un suono personale, per quanto intransigente. E questa Larvae promette maledettamente bene. Attendiamo fiduciosi, con una vergine incaprettata in cantina pronta da sacrificare al Maligno:

Ad alcuni di voi faranno probabilmente impazzire, ma gli EPHEL DUATH non sono mai stati di preciso la mia passione. L’entrata in formazione di un’icona della Nuova Carne metallica anni ’90 come Karyn Crisis (oggi moglie di Davide Tiso), segnata dal recente ep On Death and Cosmos, non poteva, però, non suscitare curiosità. A proposito di Feathers Under My Skin, anticipazione da Hemmed by Light, Shaped by Darkness, fuori a novembre su Agonia Records, mi verrebbe da parafrasare quanto detto da Herr Ferri all’epoca del suddetto ep. Da una parte sono diventati più digeribili, rispetto agli eccessi (almeno per me erano tali) di un Pain Necessary to Know, dall’altra tanto sperimentalismo li fa suonare, paradossalmente, un po’ datati e avvitati su loro stessi. O, almeno, questa è la mia impressione superficiale:

Al basso, in luogo di Steve di Giorgio, un altro fuoriclasse: Bryan Beller. Chissà come l’hanno pescato.

I WINDS OF PLAGUE prendono il loro nome da una canzone degli Unearth e già qua, direte giustamente voi, non ce ne dovrebbe fregare un cazzo. Eppure sono abbastanza bizzarri da guadagnarsi una rapida menzione. Say Hello to the Undertaker (in streaming su Lambgoat ed estratta dal loro quinto lavoro, Resistance) con il suo tripudio di tastiere ed elementi, uhm, “sinfonici”, fa venire in mente una sorta di versione deathcore dei Fleshgod Apocalypse, che – messa così – sembrerebbe roba dalla quale stare lontani un miglio. Invece non fanno manco troppo schifo. Peccato che quei diavolo di stacchi in mid-tempo (ah, già, si chiamano breakdown) siano sempre gli stessi. Poi non so, magari un disco intero è insostenibile. Fatichiamo a comprendere le motivazioni in base alle quali abbiano girato un video ufficiale per l’intro. Misteri del deathcore.

Affranchiamoci dal logorio del metallo moderno con un po’ di roba trucida come piace a noi. Vi ricordate quell’inquietante spilungone con i tatuaggi in faccia che ha suonato negli ultimi anni il basso con gli Electric Wizard? Ebbene, il tizio ha mollato gli inglesi da un annetto ed è tornato nell’avita Grecia per fondare una band tutta sua, i SATAN’S WRATH, autori già di due dischi: Galloping Blasphemies (grande titolo), uscito nel 2012, e Aeons of Satan’s Reign, fuori tra un mese su Metal Blade. Black metal thrashettone da festicciola alcolica con gli amichetti del fan club dei Sarcofago. Tipo i Desaster, insomma, ma alla greca. Ho ascoltato solo questo pezzo di anticipazione e la faccenda sembra spassosa:

Il pezzo è un po’ incasinato ma quando è partito il coro birraiolo sono corso subito, per l’appunto, a stapparmene una.

I DEATHCHAIN, invece, li ricordavo più ignoranti. Avranno finalmente preso il diploma alle scuole serali, che ne so. Va detto, però, che li avevo persi di vista dopo Deathrash Assault e da allora hanno fatto uscire un bel po’ di roba. Ritual Death Metal risale allo scorso febbraio ma ne parliamo adesso perché sì. Ora sembrano rifarsi un po’ a quella scuola death finnica che garba tanto al Pontolillo. Convulse (a proposito, il 3 novembre suonano a Roma, birba chi manca), Demilich, et cetera. Mica male, però. Su ‘sto brano c’è pure Lars Goran Petrov come ospite. Stappiamocene un’altra, vah:

E buttiamola sempre più in caciara con i BLOOD TSUNAMI, gruppazzo black thrash norvegese (dietro le pelli ci sta Bard Faust) che ebbe la sfiga di formarsi proprio nell’anno del devastante cataclisma nel Sud Est asiatico che costò la vita a migliaia di malcapitati, tra cui il mai abbastanza compianto Mieszko Talarczyk. Si dice che, proprio per questo, ritennero opportuno posticipare la pubblicazione del debutto, intitolato prosaicamente Thrash Metal. Meno quadrati e ficcanti dei connazionali Aura Noir ma, a modo loro, simpatici. Da For Faen!, che pure è uscito parecchi mesi fa ma, anche in questo caso, pareva brutto non parlarne:

Vi congedo con gli ARTILLERY, vecchi arnesi del thrash anni ’80 che devono la loro fama soprattutto a quel classico minore che fu By Inheritance. Tornarono nel ’99 con B.A.C.K., ci misero altri dieci anni per far uscire un altro disco (When Death Comes) ma ultimamente si sono rimboccati le maniche di brutto. A soli due anni da My Blood, eccoli rialzare la testa con Legions. E – sapete una cosa? – questa Chill My Bones spacca abbastanza:



Una cover dei Village People conferma gli Alestorm gruppo del decennio

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Pare che gli Alestorm (dei quali, lo ricordiamo, io e Roberto siamo ufficialmente i più grandi fan al mondo, anche perché li abbiamo visti dal vivo tre volte in undici mesi, rischiando in almeno un caso di lasciarci la pelle) qualche anno fa avessero fatto un sondaggio online per chiedere ai fan di quale brano celebre avrebbero voluto sentire una cover. A spuntarla – ed è stata una scelta meravigliosa – è stata In The Navy, l’immortale classico dei Village People, che pare fatto apposta per essere reinterpretato dai nostri alcolizzati preferiti (che oggi non si definiscono più True Scottish Pirate Metal, bensì Bacon Powered Pirate Core), a partire dalla spensierata gayness del testo. Il brano è uscito come singolo (sul lato B c’è un remix di Shipwrecked a cura di tale Drop Goblin del quale, ci assicura il gruppo, “odieremo ogni secondo”) ed è stato pure girato un video, che contiene riprese dall’imminente Dvd Live At The End Of The World, dedicato alle date in Australia e Nuova Zelanda. In una scena appare anche un altro nostro idolo assoluto, il gigantesco bassista puzzolente dei Lagerstein ribattezzato THE IMMOBILIZER che, con una rapida ricerca su google, ho scoperto aver preso il nome da un personaggio dei Transformers. Lo salutiamo con affetto.

Buon weekend, stronzoni.


TROUBLE – The Distortion Field (FRW)

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Trouble_The+Distortion+Field_7350072890003A segnare per sempre la carriera dei Trouble fu, nel 1992, quel Manic Frustration che, ancor oggi, resta tra le più clamorose scommesse perdute della storia dell’heavy metal. L’ensemble di Chicago che, insieme ai Saint Vitus, fissò i canoni del doom con pietre miliari come Psalm 9 e The Skull, cambiò pelle così radicalmente da far storcere il naso ai seguaci di un genere che ha proprio nell’autoreferenzialità e nell’immobilismo la propria cifra creativa. Meno Black Sabbath e più Led Zeppelin (il riff portante della traccia d’apertura Come Touch The Sky richiamava quello di Moby Dick in maniera troppo scoperta per essere casuale), brani dall’immediatezza disarmante, linee vocali che echeggiavano addirittura i Beatles, una vena psichedelica che si rifaceva, nei momenti più rilassati, a certo cantautorato folk anni ’60 (non era un caso se il finale della conclusiva Breathe… riprendeva il ritornello di Atlantis di Donovan), una produzione perfetta a cura di Rick Rubin. Il risultato fu un autentico capolavoro, ancor oggi sottovalutato in modo criminale. Le decine di migliaia di copie vendute non furono però abbastanza per la Def American, che sperava in un grande successo commerciale, tale da emancipare i Trouble dalla dimensione di band di culto. I problemi finanziari dell’etichetta fecero il resto. Tre anni dopo l’altalenante Plastic Green Head fu un tentativo troppo tardivo di tenere il piede in due scarpe dopo il quale sui Trouble, che pure non si sarebbero mai sciolti ufficialmente, calò di fatto il sipario.

Bisognerà attendere il 2007 per un nuovo lavoro in studio, lo spento (ma migliore di quanto si dica in giro) Simple Mind Condition, pubblicato nell’indifferenza generale. Il cantante Eric Wagner, che – nelle sporadiche apparizioni live degli anni precedenti – era stato sostituito da Kyle Thomas degli Exhorder (meteore del thrash noti per essere considerati da alcuni fantasiosi revisionisti gli inventori del sound dei Pantera), molla la baracca insieme al batterista Jeff Olson. Arriva dietro il microfono Kory Clarke dei Warrior Soul e a portare avanti l’eredità dei Trouble restano solo i chitarristi Rick Wartell e Bruce Franklin, che annunciano a cadenza regolare un nuovo album che non esce mai. Se ne va pure Clarke. Girano voci bizzarre (poi rivelatesi fondate) secondo le quali dietro al microfono sarebbe in procinto di arrivare nientemeno che Phil Anselmo.  Alla fine torna Thomas e iniziano finalmente le registrazioni. Per aggiungere una nota di surrealtà a tutta la vicenda, Wagner e Olson, insieme al bassista originario Ron Holzner, danno intanto vita a una nuova band chiamata The Skull che suona dal vivo brani dei Trouble e parlano di un full in lavorazione. Perché si sia creata questa situazione alla Rhapsody non si è mai capito bene. Fatto sta che, dopo tutte ‘ste tarantelle, le mie aspettative non erano esattamente stratosferiche. E invece, sorpresa, The Distortion Field è davvero un ottimo disco.

L’intelligenza di Wartell e Franklin sta tutta nell’aver concepito un album su misura dell’ugola roca, graffiante e versatile di un Thomas talmente a suo agio da farci quasi essere contenti che Wagner (oggi non in forma smagliante, a giudicare dal materiale live girato di recente) si sia levato di torno. È lui l’uomo in più in campo che ha permesso loro di scrivere brani dal gusto inaspettatamente moderno come Have I Told You, una sorta di digressione grunge settantiana alla Soundgarden, o di recuperare le proprie radici hard rock più genuine rifuggendo, allo stesso tempo, ogni tentazione nostalgica (One Life). I marchi di fabbrica del suono classico dei Trouble (quello di Run To The Light, diciamo) ci sono comunque tutti: le arrembanti cavalcate in mid-tempo (Sink Or Swim), quell’inconfondibile suono di chitarra, una facilità di scrittura che si traduce in ritornelli irresistibili e riff che azzannano e non lasciano più la presa come pitbull incazzati. I Trouble del 2013 sono, però, perfettamente consci di essere nel 2013 e si sono messi nelle condizioni di far breccia anche in ascoltatori ubriachi di stoner che, finora, li avevano a malapena sentiti nominare. Tra una folla di giovani formazioni che hanno fatto della clonazione dei Sabbath una filosofia di vita e le infinite reunion di marchi più o meno storici che non hanno saputo proporre di meglio che uno stantio recupero del proprio passato, The Distortion Field brilla della luce che illumina coloro che sono troppo consci dei propri mezzi e del proprio ruolo per poter fallire, sancendo una delle resurrezioni più sorprendenti degli ultimi anni. E anche quest’anno fare la playlist sarà un casino.


Tornano i PESTILENCE, ma potevano pure restare a casa

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Le mie aspettative per il nuovo Pestilence sono così basse che in confronto Renato Brunetta è il pivot dei Los Angeles Lakers. Resurrection Macabre era un noioso centone che pescava un po’ dai Morbid Angel, un po’ dai bei tempi di Consuming Impulse ma, dal momento che gli olandesi non facevano una mazza dal ’93, uno poteva pure sospendere il giudizio e praticare l’epoché. Il successivo Doctrine, che provava a recuperare in modo pedestre le contaminazioni di Spheres, era invece una bruttura con pochi pari, tale da candidare quella degli autori dell’immortale Testimony Of The Ancients al titolo di reunion death metal più sballata del decennio. Necro Morph, prima anticipazione da Obsideo, fuori su Candlelight, il 12 novembre, non è così orrenda ma non è manco troppo incoraggiante:

La band suona un po’ più quadrata, grazie a una nuova sezione ritmica che consta dell’ignoto giovine bassista crucco Georg Maier e di David Haley, batterista degli anonimi Psycroptic, direttamente dalla Tasmania (fare le prove non sarà stato semplicissimo). Anche Patrick Mameli (oriundo della mia beneamata Sardegna) ha smesso di rantolare come se gli fosse rimasto incastrato lo scroto in una pressa idraulica. Però Doctrine, per quanto fosse una chiavica, almeno era un album dei Pestilence. Questo brano, invece, funziona leggermente meglio proprio perché è più impersonale, perché tenta una resa più moderna, confermando lo stato di confusione di un gruppo che non sembra sapere benissimo dove andare a parare. Poi magari il disco intero sarà carino, che ne so. Il guaio è che, con tutta la roba arretrata che ho da ascoltare, dubito che troverò la voglia di dargli una chance. E, se guardiamo a quello che sono riuscite a tirare fuori altre vecchie lenze redivive del techno-death come Atheist e Gorguts (no, non mi sono scordato dell’ottimo Colored Sands, purtroppo il tempo è tiranno), il confronto è alquanto impietoso.

Da bravi babbioni, rifugiamoci nel passato, vah;


PARADISE LOST – Tragic lllusion 25 (Century Media)

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ParadiseLost

Se mi sono approcciato in modo positivo a Tragic Illusion 25, compilation celebrativa con la quale i Paradise Lost festeggiano i cinque lustri di carriera, è perché arriva dopo un disco inattaccabile come Tragic Idol, forse il miglior frutto del ritorno nei ranghi metallari della band di Halifax, ritorno nei ranghi che è stato il destino di tutti quei gruppi dal retroterra estremo che, a fine anni ’90, si erano spinti oltre il confine del genere (ci fu chi coniò addirittura il neologismo depeche metal) sull’onda di velleità tanto creative quanto commerciali, per poi essere costretti a riallacciarsi alle proprie radici per ragioni che è riduttivo legare a una mera questione di sopravvivenza (gli unici ai quali il grande salto è riuscito sono stati gli Anathema, che erano però partiti per la tangente già con Eternity). Se sei metallaro, prima o poi all’ovile ci torni. Aristotelicamente, è nella tua natura. Perché, se sei metallaro, lo sei a vita. Se lo sei stato, non lo sei mai stato. Pensate all’album dei Vallenfyre, che Gregor Mackintosh scrisse in reazione alla morte del padre. Quel recupero, per certi versi straordinario, dell’armamentario musicale e iconografico di Lost Paradise e Gothic non avrebbe mai potuto funzionare se quei demoni death/doom non avessero continuato ad agitarsi nel chitarrista, e principale compositore, dei Paradise Lost. A Fragile King è venuto così bene perché è stato un’operazione sincera, perché per Mackintosh è stato assolutamente naturale ricorrere a quegli strumenti espressivi per dar conto di un trauma emotivo di tali proporzioni. E A Fragile King, assai più di Tragic Idol, è stato la vera chiusura di un cerchio che Tragic Illusion 25, in qualche modo, corona.

tragic-illusionCome veri inediti contano Loneliness Remains (che trovate in calce all’articolo), presumo proveniente dalle sessioni di Tragic Idol, e le versioni risuonate di GothicOur Saviour, proprio da quel Lost Paradise che la stessa band ha sempre liquidato come una demo pubblicata per sbaglio ma al quale continuo a essere parecchio affezionato. Per il resto, è un comunque gratificante amarcord, tra scarti di registrazione (Cardinal Zero, non abbastanza in linea con il sound di Faith Divides Us – Death Unites Us per esservi incluso, o almeno così sostiene Aaron Aedy), b-sides, pezzi apparsi chissà dove (tra i quali la recente The Last Fallen Saviour, uscita su uno dei flexi disc allegati alla rivista americana Decibel), un paio di brani registrati con l’orchestra (quella di Praga, città dove, se Satana vuole, tra un mesetto andiamo a vederci i Black Sabbath) e qualche cover (particolarmente riuscita la rilettura di Never Take Me Alive degli Spear Of Destiny, istituzione minore del post punk inglese). Buon compleanno, Paradise Lost, siete sempre stati il mio gruppo meno preferito della trimurti gothic/doom britannica, ma vi voglio tanto bene.


PARTY HARD con gli Steel Panther

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Come passerete il ponte dei morti? Facendo dolcetto o scherzetto truccati da Abbath e rischiando di farvi prendere a fucilate dai vicini o in misantropico raccoglimento, evocando Yog-Sothoth nella vasca da bagno del vostro monoloculo con Abominations of desolation di sottofondo? Noi di Metal Skunk domani andiamo in massa a vedere i Karma To Burn, poi si vedrà. Quel che è sicuro è che per qualche giorno ci fermeremo, quindi, per propiziare il clima festivo, vi lasciamo con il video del nuovo singolo degli egregi Steel Panther, che farà parte del nuovo album All You Can Eat, in uscita l’anno venturo, e che contiene tutto quello che si può desiderare da un video degli Steel Panther: droga, donne nude, Ron Jeremy che tira di coca dalle tette di una tipa e William Jr. di Breaking Bad che collassa vomitandosi addosso. Ci si rilegge, amici, nel frattempo non fatevi beccare dalle guardie:


KARMA TO BURN // APE SKULL // SIXTY SIX @Traffic, Roma, 1.01.2013

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ktb

Ultimamente nei Karma To Burn sono successi un po’ di casini, che hanno portato alla sostituzione dell’intera sezione ritmica, lasciando William Mecum unico superstite della formazione che ci aveva fatto scapocciare all’Acid Fest appena un anno e mezzo prima.  Pochi mesi dopo Rob Oswald, il batterista dal look da senzatetto col crash due metri sopra il cielo, viene buttato fuori, a sua detta (traduco da quanto pubblicato sul suo profilo facebook all’epoca), per essere rimasto fermo sui suoi principi morali e aver fatto la cosa giusta. Se suonare significa dover essere un bugiardo e uno stronzo, preferisco di gran lunga andare in giro con le bestie, aveva chiosato. Non siamo a conoscenza di altri dettagli, né della versione dei fatti degli altri, quindi non traiamo alcuna conclusione. Sale a bordo il giovane, e talentosissimo, Evan Devine, con un passato in diverse formazioni blues e jazz della sweet home West Virginia. Nel frattempo escono un paio di live e, lo scorso aprile, un ep di sei tracce, pubblicato dalla Heavy Psych Sounds di Gabriele dei Black Rainbows. Poi arriva l’Hellfest, dove si presentano in due. A quanto pare, era venuto fuori che il bassista Rich Mullins, cassiere del gruppo, si imboscava i soldi del merchandising senza dividerli con i compagni (per spenderli tutti in droga, presumo), il che, comprensibilmente, non è stato preso benissimo dagli altri. Proprio in quei giorni Oswald, sempre su facebook, afferma che Rich stole a fuck load of money when I was in the band and most of it went to him and his wife’s california lifestyle e lo definisce l’essere umano più deprecabile che abbia mai conosciuto. Alè. Al basso arriva il rastone Rob Halkett e la band riparte per recuperare le date annullate nei mesi precedenti a causa delle antipatiche vicissitudini di cui sopra. E io sono dannatamente curioso di vedere come se la cavano i nuovi acquisti.

Per una volta, riesco a essere puntuale (è che di solito stacco alle 21, mica lo faccio apposta) e mi vedo per intero lo show del primo gruppo di supporto, i Sixty Six, giovane ensemble capitolino che si definisce stoned drunkest southern metal. Più che Down e affini, vengono però in mente i Pantera, ai quali si ispirano in modo marcatissimo. I riff, i ringhi anselmiani del cantante, l’incedere della batteria fanno pensare a una cover band dei texani che si sia messa a scrivere pezzi propri, al netto di qualche frangente più catchy e melodico dove si rifanno invece al nu metal macho e muscolare di Drowning Pool e Five Finger Death Punch. Trattandosi di una band assai giovane (è la prima volta – mea culpa – che li sento nominare) sono limiti perdonabili. Pur acerbi e derivativi, suonare sanno suonare e tengono bene il palco, quindi si sospende il giudizio e li si aspetta al varco tra un paio d’anni.

Si cambiano nettamente registro e atmosfere con gli Ape Skull, ormai un nome familiare per chi frequenta i palchi romani più strafattoni. Li avevo visti giusto un mesetto prima al Sinister. Questa volta, adattandosi al contesto, suonano più tosti e meno psichedelici, puntando sulle canzoni più tirate. Ho letteralmente consumato il loro debutto omonimo, che ha fatto parte della mia personale colonna sonora della scorsa estate e canticchio Lazy e So Deep (viva il campanaccio) quasi senza accorgermene, mentre mi scolo ancora un’altra birra con Charles, il fido Xabaras e un personaggio stimabilissimo, non uso a questi contesti, che, per tutelare la sua privacy, chiameremo lo Zithe. Lo Zithe sorride sempre, qualunque cosa accada (il che, nella vita, è molto importante); pur essendo una persona di elevata estrazione socioculturale, si trova perfettamente a suo agio in mezzo a noi rockettari untuosi e si diverte tantissimo, domandandomi se gli Ape Skull sono americani. No, sono più italiani della Cappella Sistina, ma la verità è che sono nati chi in California, chi in Inghilterra, sono morti soffocati nel proprio vomito nel ’67 durante l’afterparty di un concerto dei Cream e si sono successivamente reincarnati, continuando a suonare esattamente la stessa roba che andava all’epoca. Prima di chiudere con I Got No Time, snocciolano un pezzo nuovo, abbastanza aggressivo per i loro standard. Promossi come sempre. E se son garbathe pure allo Zithe...

Appena gli Ape Skull scendono dal palco, invito gli altri a precipitarsi fuori di gran lena ché così non ci fregano i posti sulle panche vicino ai biliardini. Lo Zithe mi prende in giro e mi dice che ho la crisi di mezza età, che ai debosciati come me, secondo lui, coglie subito dopo i trent’anni per mere ragioni di autoconservazione. La verità è che ho dormito tre ore perché ho scoperto Breaking Bad giusto una settimana fa e, ogni volta che posso, mi faccio le maratone notturne, cosa che nel breve periodo rischia di avere ripercussioni pesantissime sulla mia vita sentimentale e lavorativa. L’ho scoperto una settimana fa e sono già alla terza stagione. Immagino che qualcuno di voi potrà capirmi. Ma basta cazzate, che stanno attaccando i Karma To Burn. Partono con, credo, Nineteen (che io i brani dei Karma To Burn li riconosco pure, ma vatti a ricordare il titolo, dato che sono quasi sempre numeri) e le mie possibili perplessità sul repentino stravolgimento di line-up vengono subito spazzate via. Sono sempre una delle migliori live band sulla piazza, non ci stanno santi. La macchina del riff passa col rosso contromano e ti travolge senza nemmeno dirti buonasera. La scaletta pesca un po’ da tutta la discografia ma è interamente strumentale. In tempi di post rock über alles non sembra più una faccenda troppo bizzarra, ma ai tempi di Wild Wonderful Purgatory come idea era abbastanza allucinante. Halkett fa vedere lontano un miglio di essere strafelice di essere finito in uno dei gruppi più fichi del globo terracqueo (ebbene sì, sono di parte), si piazza sempre al limite del palco, scapocciando con noi. Inevitabile il paragone con la presenza scenica di Mullins, che smascellava, in preda al sovradosaggio di chissà quale stupefacente, con lo sguardo fisso di fronte a lui, inconsapevole persino di dove si trovasse. Né meglio, né peggio, però diversi. Meno sfascioni, più precisi, sempre irresistibili. Pure Mecum pare meno pisto del solito. E Devine alla batteria è stata davvero un’ottima scelta. Randellate di doppio pedale, rullante isterico ma controllato. Xabaras dice che si vede che viene da una scuola di musica, ma gli hanno imposto quel look. Secondo lui è più bravo di Oswald. Forse ha ragione. William cazzeggia con il pubblico, chiede due o tre volte do you want more? e la risposta è sempre yeah. Si va a casa con Twenty. Lo Zithe si fa pure la foto con il bassista. Un’altra anima conquistata a Satana.


Gli INCANTATION tornano in Europa e fanno due chiacchiere con noi

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È andata così: inizialmente avevo mandato alla casa discografica una serie sterminata di domande, manco dovessi scrivere una biografia dello storico gruppo death metal americano. Poi è arrivata una tegola abbastanza tremenda: Jill, moglie del leader degli Incantation John Mc Entee, (e cantante e bassista dei discreti Funerus, dove il consorte suona la chitarra), si è ammalata di una grave neuropatia, legata al diabete, che la ha costretta a subire un’operazione a cuore aperto. Siccome siamo negli Usa, dove, se non hai un’assicurazione sanitaria, puoi pure crepare in mezzo alla strada come un cane rognoso, la coppia si è trovata un po’ nella merda con i costi delle cure (era stata pure lanciata una campagna di raccolta fondi online in proposito). Quindi, nel frattempo, non me la sono sentita di cacare il cazzo alla Listenable perché John non mi mandava le risposte. Qualche giorno fa, però, mi è stata data occasione di fare qualche domanda al suddetto e al batterista Kyle Severn sull’imminente tour europeo di supporto all’eccellente Vanquish In Vengeance. Ecco che ne è venuto fuori:
È un pezzo che non fate un tour esteso in Europa, manco noi anziani ci ricordiamo dell’ultima volta, anche se immagino dipenda dall’arteriosclerosi.

John: ogni volta che passiamo per l’Europa è, a modo suo, un evento. Un sacco di band vi suonano una volta all’anno, a volte pure due, e credo sia troppo. Per noi è meglio attendere e fare le cose nel modo giusto, per assicurarci di poter dare alla gente uno show di qualità e una scaletta che non sia sempre la stessa.

Kyle: nell’industria musicale, quando sei in tour, non sai manco se sarai in grado di tornare a casa e vogliamo che i nostri fan si organizzino per non mancare a show che significhino qualcosa anche per loro. Speriamo che i fan si rendano conto che, proprio perché non veniamo spesso in Europa, vogliamo che si tratti di un’occasione speciale.

A proposito di scaletta, tirerete fuori qualcosa di particolare dalla tomba?

John: non ci va di rivelare la nostra scaletta prima del tour ma possiamo assicurarvi che sarà un set estremamente diversificato. Suoneremo una buona quantità di nuovo materiale e tantissimi pezzi estremamente rari che non suoniamo dal vivo da parecchio. Anzi, alcuni dei brani in scaletta non li abbiamo mai suonati in Europa. Per l’appunto, è un’occasione speciale e vogliamo fare qualcosa di speciale per chi è nostro fan da tempo. Credo che questa scaletta lascerà estremamente soddisfatto chi ci segue da vent’anni e passa. Abbiamo tirato su due setlist diverse che verranno alternate, e ciascuna di loro subirà a sua volta dei mutamenti ogni notte. Credo vi piacerà…

Come vi trovate a suonare nuovamente con una formazione a quattro?

John: quella di adesso è probabilmente la formazione più solida della nostra carriera, è meraviglioso lavorare insieme. E insieme abbiamo scritto alcuna della musica più oscura, pesante e malata che abbiamo mai composto.

Kyle: abbiamo tutti la medesima idea di come il death metal in stile Incantation debba suonare e su quali sensazioni debba trasmettere. E siamo più di una band, siamo amici. Amiamo davvero suonare insieme, e credo che il nostro materiale lo lasci emergere. Anche i vecchi pezzi non hanno mai suonato così bene.

Vanquish in Vengeance arriva a sei anni da Primordial Domination. Stavolta, a quanto ho capito, ci metterete molto meno a tornare in studio…

John: assolutamente sì, stiamo lavorando su un mucchio di nuovi brani e siamo davvero ansiosi di entrare in studio il prima possibile. Al momento, credo che inizieremo a registrare a gennaio o a febbraio dell’anno prossimo. Tutti hanno dato il loro contributo e girano un sacco di idee interessanti, anche se manterremo quel total crushing heavy death metal sound che è tanto importante per noi.

Kyle: non abbiamo mai smesso di scrivere da quando abbiamo iniziato a lavorare a Vanquish in Vengeance. Contiamo di entrare in studio appena tornati dal tour europeo.

Un saluto agli adoratori del caprone che vi aspettano oltreatlantico?

John:  you guys totally sick. Non vediamo l’ora di vedervi in tour,  Hail the goat!

Kyle: continuate a sostenere uniti il fottuto death metal blasfemo. Avete ascoltato e vi siete goduti il nostro metallo per oltre vent’anni e finché continuerete a bestemmiare Cristo, venerare il caprone e ascoltare il nostro Death Fucking Metal, continueremo a comporre e a suonare! 666!

Qua sotto la locandina del tour europeo. Io andrò alla data di Calenzano. Se volete reggermi la testa mentre vomito o insultarmi, come è giusto che sia, per le stronzate che scrivo, ci becchiamo lì. Nel frattempo mi raccomando, ragazzi, non smettete mai di bestemmiare Cristo e venerare il caprone. Ne va del nostro Death Fucking Metal.

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MONSTER MAGNET – Last Patrol (Napalm)

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Powertrip fu il treno per il successo di una band che anche all’epoca di un disco oggi acclamatissimo, tanto da essere suonato per intero durante un recente tour, come Dopes To Infinity era rimasta sostanzialmente underground. Senonché i Monster Magnet scesero a fumarsi un cannone alla prima stazione utile e, una volta ripigliatisi, si resero conto che non solo il treno era ripartito ma che loro non sapevano manco dove accidenti fossero finiti. Il problema degli album successivi a quel best seller (mai più pareggiato, almeno dal punto di vista commerciale), sia quelli buoni (il cazzuto Monolithic Baby!) che quelli meno buoni (lo spento 4-Way Diablo, uscito un anno dopo l’overdose di cui cadde vittima Dave Wyndorf nel 2006), era il retrogusto amaro che lasciavano, il retrogusto inconfondibile di quei gruppi che sono stati a un passo dal diventare grandissimi per poi perdere la bussola proprio nel momento del grande salto e proseguire il cammino a tentoni, senza una direzione precisa. Mi ero quindi approcciato a Last Patrol con una sorta di benevola sufficienza, sicuro che lo avrei ascoltato cinque o sei volte massimo, mi sarei aggrappato a quei due o tre pezzi più azzeccati degli altri per convincermi che l’act del New Jersey non fosse ancora bollito del tutto e poi lo avrei dimenticato in fretta. E invece, sorpresa, è davvero un gran bel disco.

La sensazione è che Wyndorf abbia finalmente fatto pace con i propri demoni. Quell’aggressività troppo spesso innocua, quel senso di urgenza che finiva sempre per girare a vuoto, quella sovrabbondanza di input che frenava ancora il precedente Mastermind hanno lasciato spazio a una rilassatezza che è la parola d’ordine di brani dall’incedere torpido e sornione come l’insinuante The Duke Of Supernature o la conclusiva Stay Tuned. Di antico c’è un recupero pesante e inatteso (e decisamente benvenuto) della vena space rock hawkwindiana di Spine Of God, del quale Last Patrol riprende in modo più o meno premeditato le atmosfere; di nuovo ci sono l’essenzialità e la volontà di riallacciarsi alle proprie radici rivendicate in episodi come Three Kingfishers, riuscitissima cover di Donovan,  e Hallelujah, incentrata su un riffing blues talmente semplice e canonico da risultare irresistibile. Ispirati e padroni di loro stessi come non lo erano da parecchio, i Monster Magnet (perso, nel frattempo, per strada Ed Mundell) hanno ritrovato di colpo la loro identità e inciso una delle loro prove migliori di sempre. Buon viaggio interstellare a tutti:


Intervista ai RED FANG

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Red Fang "Whales and Leeches" press photos 2013

E’ sempre una scocciatura quando lo spacciatore non arriva in orario

Che il principale difetto di Whales And Leeches sarebbe stato il venir dopo Murder The Mountains era stato un po’ il pronostico di tutti qua a Metal Skunk, pronostico poi corroborato dai fatti. Intendiamoci, Whales And Leeches resta un bel dischetto che, superati i pregiudizi iniziali, cresce pure, in virtù di un songwriting maggiormente sfaccettato che lo rende meno immediato, dato che quello che manca davvero, in fondo, sono giusto i singoloni dall’appeal radiofonico come Wires e Hank Is Dead. E poi, come ha sottolineato il buon Nunzio, essere troppo severi con i quattro ragazzoni di Portland sarebbe ingiusto. Era un compito improbo replicare il megabotto di Murder The Mountains, il classico disco giusto al momento giusto (un ritorno di fiamma generalizzato per le sonorità novantiane tout-court: non solo lo stoner rock ma anche lo stesso grunge, che il gruppo considera tra i loro punti di partenza, una filiazione che, a riascoltarli meglio, non appare manco troppo campata in aria) per l’etichetta giusta (la Relapse, che ci ha visto lungo nel puntare su di loro, confermando una certa abilità nel contrabbandare presso un pubblico metal generalista anche produzioni piuttosto eterodosse). Insomma, di un simile successo i Red Fang sono stati i primi a rimanere sorpresi, come ci racconta il chitarrista Bryan Giles in quest’intervista, dove abbiamo discusso, tra le altre cose, della fiorente industria del sesso della sua città e di dove si trovi l’erba migliore negli Stati Uniti…

Vi ho visto due volte a Roma e in entrambi i casi il locale era stracolmo. State avendo lo stesso successo anche in Usa?

Le cose stanno andando piuttosto bene anche negli States. Da queste parti credo sia più difficile conservare a lungo l’attenzione dei fan a causa del gran numero di band che girano gli Usa in maniera regolare ma abbiamo la fortuna di avere un pubblico molto devoto. In generale, sono il primo a essere rimasto sorpreso dal fatto che Murder The Mountains sia piaciuto a così tanta gente… Io suono perché non potrei fare a meno di farlo, poi, se la gente gradisce, tanto meglio!

Quel che mi ha più colpito dei vostri show è che vi si beccano parecchie persone che di solito non vedresti a un concerto stoner. Punk, indiboi, gente del giro rockabilly… Perché siete diventati un gruppo così trasversale?

Azzarderei una risposta dicendoti che ognuno di noi ha gusti musicali completamente diversi, e questo credo esca fuori nelle canzoni. Traiamo ispirazione dai generi di musica più disparati, forse è per questo che attraiamo un pubblico così diversificato. Io sono un grande fan di Justin Timberlake e Simon and Garfunkel, ad esempio. Gli amori condivisi da tutti sono il rock anni ’70 alla Black Sabbath e Led Zeppelin e il grunge anni ’90 di Mudhoney, Tad e Soundgarden.

RED FANG 2013 © Tim TronckoeIl vostro approccio live è distantissimo da quello di un tipico gruppo stoner: suonate dannatamente diretti e puliti, non c’è quella componente di improvvisazione così frequente nel genere…

Non descriverei la nostra musica come stoner rock, credo che una delle cose che definisca il genere sia, come dici tu, quella componente di improvvisazione per la quale noi non nutriamo il minimo interesse. Sa un po’ di autocompiacimento, almeno dal mio punto di vista. Ci facciamo in quattro per far filare le nostre canzoni nel miglior modo possibile, quindi non sento alcuna spinta ad alterarle dal vivo.

Avete sentito molta pressione addosso mentre lavoravate a Whales And Leeches, dato che Murder The Mountains era andato così bene?

Sì, volevamo a tutti i costi fare un buon disco. Credo che la pressione ci abbia aiutato a spingerci più oltre, e le tempistiche strette ci hanno aiutato a non rimuginare troppo sui brani, che è una cosa che di solito tendiamo a fare. Whales And Leeches è comunque un disco coeso, ma abbiamo provato a essere i più vari possibile per mantenere la faccenda interessante per noi e, si spera, per i fan.

Come è nata la collaborazione con Mike Scheidt degli Yob?

Abbiamo scritto Dawn Rising senza un’idea precisa di come avrebbero dovuto suonare le linee vocali. Aaron e io abbiamo avuto un po’ di difficoltà nel trovare qualcosa che funzionasse. Siamo tutti grandi fan degli Yob e Mike si è rivelato una scelta perfetta. Siamo stati molto fortunati che abbia voluto prestare il suo talento al disco.

Red Fang "Whales and Leeches" press photos 2013Abbi pazienza, ma ora ti devo fare un paio di domande su Portland. Ho un paio di amici lì, ci trascorsi una settimana alcuni anni fa e ci rimasi, per qualche motivo, in fissa. Cosa la rende un ambiente così creativo? Palahniuk in Portland Souvenir scrisse più o meno che, siccome a Seattle sono più ricchi e a San Francisco si sentono più fighi, voi avete deciso di diventare i più scoppiati della West Coast.

È una città molto vivibile. Essendo così piccola e isolata, un sacco di persone artistoidi vi gravitano intorno. Credo che anche il cattivo tempo contribuisca alla diffusione dell’arte, dato che ci costringe a restare barricati in casa per la maggior parte dell’anno.

Sempre nello stesso libro, Palhaniuk soprannomina la città Pornland per il gran numero di cinema a luci rosse e club di scambisti. Com’è ‘sta storia?

A Portland in effetti non ci facciamo mancare nulla, in quanto a industria del sesso. È un’ambiente molto aperto e liberal qui, quindi ottenere licenze per esercizi del genere è probabilmente più facile che in città più conservatrici. Il sesso vende. Non che mi lamenti di ciò.

Lo stereotipo che vuole Portland mecca degli hipster è legato ai cinema porno? Sono una cosa molto vintage, se ci pensi.

Gli hipster sono gente che si interessa alla cultura underground per trarne un’immagine e non perché gli dia davvero felicità. C’è fin troppa gente che pare saperla lunga, ma la maggior parte di essa è calata in modo sincero nella cultura underground. Dubito però che i cinema porno abbiano qualcosa a che fare con tutto questo.

In quale area degli States si trova l’erba migliore?

Credo in California, soprattutto nel Nord. La marijuana è probabilmente la principale merce di esportazione di Arcata. Io, in genere, cerco di evitare quella roba.

Non fumi? Ecco perché suonate così precisi dal vivo!

Eh, ma l’erba troppo potente mi manda fuori di testa…


Intervista ai BLACK CAPRICORN

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Black Capricorn june 2013

Vedere una band proveniente dalla mia città natale pubblicare quello che, senza campanilismi, è uno dei migliori dischi usciti dall’underground doom quest’anno (Born under the Capricorn, di cui vi ho parlato a suo tempo) e raccogliere ottime recensioni anche tra gli addetti ai lavori esteri non può che farmi piacere. Anche perché, se in termini di visibilità e standard professionali la scena italiana ha fatto negli ultimi anni enormi progressi rispetto ai mitizzati ’90, chi fa musica in Sardegna deve continuare a fare i conti con handicap strutturali non facilmente superabili. Saremo pure un popolo testardo ma dover prendere un traghetto anche solo per suonare in un’altra regione è qualcosa che può tagliare le gambe anche ai più determinati (si pensi al recente scioglimento di una formazione interessantissima come i Curse This Ocean). Ne abbiamo parlato con Fabrizio Monni, voce e chitarra del gruppo cagliaritano…

Facciamo un po’ d’ordine: poco dopo la pubblicazione del vostro secondo album, Born under the Capricorn, avete annunciato un anno di stop. Tale decisione era stata legata all’addio dei due nuovi membri?

No la decisione di fermarci era stata presa prima.

Come vi siete ritrovati a tornare alla formazione a tre dell’esordio?  E’ stata una scelta di necessità o non avete nemmeno pensato a reclutare nuovi membri?

Io volevo continuare ma c’ erano da risolvere alcuni problemi di salute prima. Ci sono voluti diversi mesi e quando le cose sono un pò migliorate abbiamo riprovato in tre. Ora come ora non vogliamo coinvolgere nessuno al 100%.

Quanto è stato frustrante dover tirare i remi in barca proprio mentre il disco iniziava a ottenere buoni consensi all’estero? Avete dovuto rifiutare qualche offerta importante, in termini di tour et similia, nel frattempo?

Nessuna offerta se non quella per andare a Malta ci era stata fatta, però, se avessimo continuato, penso avremmo suonato di nuovo in giro.

A tale proposito, è vero che avevate chiesto a Massimo Cellino di unirvi a voi come secondo chitarrista ma il suo arresto ha fatto saltare tutto? Recupererete con un tour in Colombia di spalla ai Maurilios? Ho letto che il presidente ama molto quel paese.

Ahahaha, non siamo alla sua altezza. In tutti i sensi (e mancu malisi!).

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Il fonico dei Black Capricorn dà istruzioni alla band

La maggiore ecletticità del vostro secondo album era legata ai nuovi membri? Che direzione stanno prendendo i nuovi pezzi?

La maggior parte dei pezzi sono scritti da me, anche quelli del disco a cinque, però c’ è un’evoluzione ogni volta. I nuovi pezzi sono più heavy, ma per ora non abbiamo nessuna idea di cosa uscirà e se sarà un ep o un full.

Quando ho lasciato Cagliari per trasferirmi a Roma, nel ’99, le uniche occasioni per ascoltare un po’ di heavy metal erano un paio di locali che aprivano e chiudevano a singhiozzo e le assemblee di istituto liceali. Negli anni successivi le cose, dall’esterno, mi erano sembrate andar meglio: c’erano un paio di locali, come il Fabrik e il Titty Twister, che facevano suonare anche band internazionali e una webzine, sardcofago, con la quale riuscivo a tenermi aggiornato su cosa capitava nella mia isola. Ora mi sembra si sia tornati un po’ indietro. Cos’è successo, dal vostro punto di vista?

Concordo sul fatto che siamo tornati indietro a differenza invece di quello che succede in Europa e forse anche nel resto d’ Italia. Una risposta sul perchè non ce l’ avrei, forse un insieme di eventi, compreso il fatto che la nostra mentalità non ci porta a osare o a prendere ad esempio ciò che si fa fuori e come lo fanno…  Insomma, forse siamo un pò troppo “fatti e lasciati”… Comunque segnalo un nuovo locale che sta facendo davvero bene ed è la Cueva  Rock… Ricordi dove stava lo Skate Park? Stessa zona \m/

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I Black Capricorn in sala prove

Qualche nuovo gruppo sardo che merita?

In effetti i gruppi non mancano, almeno quello… Ce ne sarebbero molti, facendo un giro su internet è facile incappare in qualche gruppo sardo!

Sul vostro esordio c’è un brano intitolato Sa Bruxia, nel disco dopo spuntano le launeddas. I riferimenti alla tradizione sarda sono destinati a crescere nella vostra musica?

Ci fa piacere poter inserire di questi elementi, la nostra storia è ricca di spunti. Abbiamo qualche pezzo nuovo che riprende la sardità in un modo o in un altro, non so però se finiranno su disco…

Ti è piaciuto 13?

Sì (troppo secca la risposta? ahaha).

E già che si parlava dei Sabbath, ci lasciamo con la bella cover di Solitude con voce femminile incisa un paio di mesi fa dalla band. Saludi e trigu e tappu de ortigu:


Mai più senza: la raccapricciante moda dei maglioni natalizi dei gruppi

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I cosiddetti “maglioni natalizi” sono riconosciuti all’unanimità come uno dei sintomi più eclatanti dell’ineluttabile decadimento della civiltà occidentale insieme ai giornalisti che litigano su twitter e ai Rings Of Saturn. Insomma, non sarà un caso se per caratterizzare il personaggio sfigato del ‘Diario di Bridget Jones’ gliene fanno indossare uno all’inizio del film. Da noi in Italia, dove avremo pure tanti problemi ma un minimo di gusto estetico ancora lo conserviamo, se ti butta davvero male, al massimo ti trovi sotto l’albero un paio di calze rosse e verdi donate dalla solita zia stronza resa tirchia e acida da una zitellaggine senza speranza di riscatto. Di contro negli Stati Uniti, che quando si tratta di cattivo gusto non si fanno mancare niente, questi lanosi obbrobri, invece di essere proibiti per legge, sono finiti nel vortice di quel pernicioso fenomeno di rivalutazione trash per il quale più una cosa è orrenda, più è ironica e divertente. Non ci voleva quindi molto prima che a qualche band venisse in mente che mettere in produzione dei maglioni natalizi con il proprio logo sarebbe stata proprio un’idea fantastica.

A lanciare la moda, che io sappia, è stato un gruppo che di cattivo gusto se ne intende: i deprecabili Attila, assurti alle cronache di Oltreoceano per un uso gratuito del turpiloquio e una quantità di tette e culi random nei video tali da far correre a piangere dalla mammina anche il più trucido dei rapper papponi da Mtv alle due del mattino di fronte a una birra calda al Pub della Depressione™. Se avete ventotto dollari che vi crescono, potete aggiudicarvi l’abbacinante piacevolezza che potete ammirare in fondo a destra nella foto all’inizio del pezzo (quella con le due renne che trombano e l’amena scritta suck my fuck).

Sdoganare questa turpe tendenza era inevitabile toccasse agli Slayer (o, meglio, quel che ne resta), che ormai imprimono il loro marchio su qualsiasi puttanata, dagli occhiali da snowboard ai leggings, nell’inutile tentativo di distogliere i fan dal rovinarsi il fegato perché Kerry King intende registrare un nuovo disco come se niente fosse dopo la morte di Jeff Hanneman. Lustratevi gli occhi:

Slayer-X-Mas-Sweaters

Pur senza raggiungere le vette di situazionismo della Victory Records (noi già non ci capacitiamo di come una persona sana di mente possa voler spendere dei soldi per un disco degli Emmure, figuratevi per il maglione), che ha lanciato una linea apposita per tutti i gruppi del suo catalogo, l’idea viene ovviamente ripresa anche dai Metallica, che, quando si tratta di inventarsi nuovi mezzucci deteriori per spillare soldi ai fan, non guardano in faccia a nessuno. Certo, alla luce degli scoraggianti incassi, come trovata commerciale ha sempre più senso di Through The Never:

Metallica-Christmas-Sweaters

Confidiamo che Dave Mustaine, che, da buon cristiano rinato di questa ceppa, dovrebbe prendere molto sul serio le ricorrenze sacre, non li voglia rincorrere anche questa volta.

Per non smentire la fama del proverbiale umorismo yiddish, quei buontemponi degli Anthrax (che, lo ricordiamo, avevano messo in commercio dei rosari per promuovere l’uscita di Worship Music) si sono invece inventati un indispensabile accessorio per celebrare degnamente l’Hanukkah che, per i meno imparati, è il Natale ebraico. Ok, come idea è simpatica, ma voglio vedere se Scott Ian ha il coraggio di presentarsi in sinagoga con indosso una roba del genere:

Anthrax-Hanukkah-Sweater-620x620

Adesso, per chiudere il cerchio, ci vorrebbe qualche gruppo black musulmano (che so, gli Acrassicauda) che cacci dei maglioni con le mezzelune per il pellegrinaggio alla Mecca. Mi dicono che nel deserto saudita faccia un freddo boia, la notte.

Se poi volete il kit completo con le palle di Natale, potete rivolgervi ai Devildriver, così la vostra donna vi sbatte fuori di casa definitivamente:

DevilDriver-Christmas-Sweaters

A questo punto, tanto vale buttarla in caciara, avranno pensato giustamente i Dying Fetus. Sempre per i meno imparati, Kill Your Mother Rape Your Dog è un pezzo di Killing On Adrenaline, anche se non fatico a credere che in Maryland almeno un cenone natalizio su venti finisca in quel modo:

dying fetus_sweater

Concludiamo con l’unico maglione che vale la pena avere, quello dei Motörhead, che invece è fico perché è il maglione dei fottuti Motörhead e tutto quello che fanno i Motörhead è per definizione giusto e bellissimo. Anzi, sapete che vi dico, se Mark Darcy lo avesse indossato al party natalizio, invece di quella cacata con la renna, si sarebbe trombato Bridget Jones nel cesso tra l’aperitivo e l’antipasto, invece di farsela soffiare da quel bietolone del suo capo. Altroché:

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STEVEN ADLER – My appetite for destruction (Chinaski)

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adlerbookCi sono due tipi di fan dei Guns’n'Roses. Quelli per i quali i due Use Your Illusion erano già di troppo e tutti gli altri. Io appartengo alla prima categoria. Appetite For Destruction lo ascolto ancora spesso. È uno dei migliori dischi rock mai incisi a memoria d’uomo. O no? Insomma, sono tra coloro che considerano Contraband dei Velvet Revolver quanto di più vicino esista all’ideale successore di quello stramaledettissimo capolavoro e ai quali non è mai venuta la fantasia di sentire Chinese Democracy manco per curiosità. I Guns erano Axl, Slash, Duff, Izzy e Steven. E basta. Ci tiene a ribadirlo quel poveraccio di Steven Adler in questa sua autobiografia e io, sinceramente, sarei d’accordo.

Il batterista è il terzo membro della formazione storica ad affidare alla carta le sue memorie (il primo era stato Slash, nel 2007, poi, qualche anno dopo, toccherà a Duff McKagan) ed è quello che ha lasciato la testimonianza più dolorosa e, proprio per questo, più interessante. Dolorosa non tanto per le dinamiche del suo allontanamento (da lui vissuto come un autentico tradimento), avvenuto poco prima dell’inizio delle registrazioni di Use Your Illusion, quando era comunque troppo devastato per garantire affidabilità a una band lanciata verso la conquista del mondo, quanto per l’irresoluto disagio che si respira nelle pagine successive al racconto di quell’evento. Le biografie delle rockstar vengono solitamente stese una volta raggiunta una pacificazione personale che consente di rapportarsi con distacco e un po’ di (mal)sana autoindulgenza a un passato di eccessi insostenibili e sprezzo per il proprio spirito di autoconservazione. Vale per la biografia di Slash, che ora è un placido milionario con famiglia ancora in grado di riempire gli stadi. Vale per i Mötley Crüe, che con The Dirt ci hanno regalato il libro rock definitivo ma ormai una regolata se la sono data. Vale, che so, per Nick Kent. Steven Adler invece sta ancora a pezzi. Non c’è catarsi a fine lettura, tutt’altro. Anzi, non c’è nemmeno un vero e proprio “finale” (la data di pubblicazione Usa è il 2011, quindi non viene dato conto del recentissimo scioglimento degli Adler’s Appetite, che comunque non lo avevano aiutato più di tanto a riguardarsi). Per quel che ne sappiamo, Steven, in questo momento, potrebbe benissimo essere di nuovo in clinica attaccato a una flebo. La bravura di Lawrence Spagnola, il giornalista che lo ha affiancato, sta nel non aver mediato il flusso di coscienza del batterista, che descrive con un’onestà disarmante una spirale discendente fatta di ventotto overdose, tre tentativi di suicidio, un paio di arresti e un infarto.

Le figure intorno alle quali finisce per girare il libro sono la madre e Slash, gli unici a non essere citati nei ringraziamenti, dove si menziona perfino Axl che, individuato in Adler l’anello debole della catena, ne farà presto il Jason Newsted della situazione (e che, però, sarà il solo a presentarsi al suo capezzale ospedaliero dopo un’overdose più pesante del solito). Quella madre che gli era stata vicina anche nel nadir del degrado ma per la quale Adler riesce a spendere parole di odio sconcertanti poco prima della conclusione. Quello Slash, con il quale aveva fondato la band da adolescente, che prima si fa complice silente della sua defenestrazione e poi, anni dopo, lo va a prelevare a casa con la forza per l’ennesimo rehab destinato a fallire miseramente. Ci avrà messo parecchio del suo, ma Steven Adler è uno che dalla vita l’ha presa pesantemente in quel posto. Molta gente con trascorsi analoghi l’ha passata molto più liscia, dai. Il candore con cui racconta una lacerante parabola senza lieto fine possibile, l’assenza di rancore verso chicchessia, intervallata da lancinanti esplosioni di risentimento, il suo riuscire comunque a spendere una buona parola per tutti (magari rimangiandosela poco dopo) sono i motivi che rendono My appetite for destruction una lettura così coinvolgente. Anche perché la morale è universale: se non si è provvisti di una buona dose di fortuna e cinismo, questo mondo è troppo crudele per potersi permettere di perdere il controllo di se stessi.


CRIPPLE BASTARDS // TSUBO // GALERA @Traffic, Roma, 29.11.2013

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CB_Giulio

Misantropo a senso unico è uno dei miei dischi preferiti. È parte integrante di me, quanto un Reign In Blood o un Covenant. Ma per ragioni ben diverse, che tentai di spiegare in modo accettabilmente succinto in italianoChitarra. Criminally Insane e Sworn To The Black non esprimono chissà quale visione del mondo, almeno non tramite le liriche. I Cripple Bastards invece parlano della vita, quella reale, che – come scrissi da qualche parte ai tempi di Variante alla morte – non farà sempre schifo ma quando fa schifo è come  te la raccontano i Cripple Bastards. Perché, se quei testi non riuscite a capirli, non significa che siete più ottimisti o meno sfigati di me. Significa solo che un certo tipo di sensibilità non l’avete. Buon per voi. Misantropo a senso unico è un grido di dolore che – per quanto appartenesse a un Giulio più giovane, che non aveva ancora perso del tutto l’innocenza rispetto al nichilismo cinico (e dunque più adulto) trasudato da Variante -  gli anni hanno reso solo più fragoroso e lancinante. L’album è stato appena rimasterizzato dalla FOAD, l’etichetta gestita dal cantante (la stessa che aveva pubblicato la raccolta di cover Frammenti di vita), e il gruppo sta promuovendo la ristampa con alcune date in giro per la penisola e una scaletta incentrata per metà su quello che resta il loro disco più amato. Impossibile mancare, dunque.

galeraAl Traffic la delegazione di Metal Skunk si presenta abbastanza nutrita. Ci sono Charles e Stefano Greco, che non sono troppo avvezzi al genere ma c’era voglia di negatività nell’aria. C’è il Masticatore, accompagnato dall’esimio Negro. Non siamo però ancora in molti quando, verso le undici, salgono sul palco i GALERA. Roma Isterica, ep d’esordio del quartetto romano, che raccoglie tre membri dei disciolti Ebola e il batterista dei Payback, non era affatto male, tuttavia, dato che la produzione era quella che era, mi era rimasta la curiosità di risentire quei pezzi in versione live. Curiosità positivamente soddisfatta, perché il loro post-hardcore moderno e incazzato dal vivo spacca, compatto (bel lavoro della sezione ritmica, anche se ci stiamo ancora chiedendo perché il bassista suonasse coi guanti) e pulito il giusto, come meritano canzoni dalla struttura anche abbastanza complessa, tra sfuriate alla Converge (Padre Pedofilo, che resta il mio brano favorito) e momenti più storti e rallentati. Tocca poi agli TSUBO, che stanno portando in giro il loro primo full in studio, l’ottimo …Con cognizione di causa. Il Masticatore, che è il più grande fan degli Tsubo esistente (all’Interiora Horror Fest credo stesse cantando addirittura i testi ma non ci giurerei perché ero troppo ubriaco), sorride come un ergastolano finito nelle docce della sezione femminile nel corso di un tentativo di evasione e muove la testa a ritmo. Come faccia non si sa, date le velocità di esecuzione supersoniche che caratterizzano i latinensi. Nè si sa come faccia il batterista a reggerle per un intero concerto, intensissimo e con pochi rallentamenti. La gente è un po’ freddina, a dire il vero. Ve state a divertì? Che a me me pare che ve state a rompe er cazzo, ci apostrofa Giorgio. Io mi sto divertendo abbastanza ma il contesto un po’ li penalizza. I Cripple richiamano un pubblico sorprendentemente eterogeneo, “curiosi” inclusi, quindi ci sta che non tutti siano avvezzi a farsi trapanare le orecchie da una sventagliata di grind ferocissimo e sparatissimo che non lascia tirare il fiato nemmeno per un secondo.

I Bastardi partono con la title-track di Misantropo e mi butto sotto il palco, mezzo invasato. Se Der Kommissar si muove troppo, mi dà la chitarra in faccia. Per me è ok. Urlo le parole del testo come se dovessi attirare l’attenzione di una squadra di soccorso. L’unico che mi segue in prima fila è il Negro, che poco dopo si farà sfasciare gli occhiali nella bolgia, per poi mostrarli a Giulio con un sorriso trionfante, come se fossero un trofeo di guerra. La prima parte della scaletta è basata su quell’album, tra inni da stadio (quello di Belgrado durante una rissa tra il primo e il secondo tempo del derby) da intonare nel caldo abbraccio collettivo dell’odio (Morte da tossico, Il tuo amico morto) e roba che dal vivo non si sentiva da parecchio (Peso inutile, Quasi donna… Femminista). Io ero arrivato quasi a sperare che lo suonassero tutto di fila, Flashback di un massacro compresi. La psicotica presenza scenica di Giulio – che, se ci parli al banchetto (dove Charles rischia di comprare il nuovo dei Rotting Christ per la seconda volta: l’Alzheimer inizia a diventare un fenomeno preoccupante tra gli autori di questo blog), è la persona più gentile e pacata del mondo – mantiene una potenza espressiva raggelante. Quando si china, quasi raggomitolandosi sul microfono, sembra volersi chiudere a testuggine per attutire l’impatto di quegli orrori quotidiani e concreti che si abbattono su tutti noi ogni giorno. Quando si rialza e incrocia i pugni in alto ci dice che neanche questa volta lo hanno schiacciato. Vaffanculo, non ci avranno. Mai. La seconda parte del concerto pesca soprattutto da Variante. La violenza diventa più lucida e controllata. Stupro e addio è una delle più acclamate. Non mi fanno Sangue Chiama, che è una mia hit personale, pazienza. Più trascurato Desperately Insensitive, rappresentato dalle sole I Hate Her e Get Out And Bite Them, che chiude le danze insieme a qualche classicone più datato, tra cui le immancabili Italia di merda e Prospettive limitate, sulle quali il pogo si fa ancora più brutale e catartico. Usciamo dal Traffic rinfrancati e la strada, là fuori, è sempre a senso unico.


Ufficiale: Pete Sandoval fuori dai Morbid Angel per colpa di Cristo

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Il periodo di aspettativa di Pete Sandoval, che aveva mollato i Morbid Angel nel 2010 a causa di un’ernia al disco senza mai smettere nominalmente di esserne membro, stava già iniziando da un pezzo a sembrare troppo lungo per non destare sospetti, anche perché il batterista ha ripreso l’attività live con i Terrorizer (o quelli che oggi passano per tali) già da un annetto, quindi tanto male non dovrebbe più stare. Oggi, in un’intervista a Invisible Oranges, David Vincent ha confermato per la prima volta quello che aveva già intuito chi, come il sottoscritto, ha chiesto a Sandoval l’amicizia su Facebook per poi scoprire che sulla sua bacheca, invece che invocazioni ai Grandi Antichi, pubblica solo citazioni della Bibbia (al momento dovrebbe avere la faccia di Gesù come avatar e una chiesa come immagine del profilo): il buon vecchio Commando è uscito di brocca appresso a Cristo e l’aver abbracciato la fede gli impedisce di tornare a tritare le pelli in una band i cui testi includono versi come Ghouls attack the church / Crush the holy priest / Turning the cross towards hell et cetera. Non un credente normale ed equilibrato come Tom Araya che non si fa alcuno scrupolo a sbraitare sul palco da trent’anni di essere l’Anticristo, quindi, ma un born again duro, alla Dave Mustaine.

Ecco cosa racconta Vincent al blog americano:

Pete è ancora ufficialmente un membro del gruppo? Risulta come tale da molte parti, su internet.

Pete non è più nei Morbid Angel.

Pubblicamente disse alcune cose poco gentili sul nuovo disco, quando uscì.

Beh, tutto il suo stile di vita è cambiato. È in un posto diverso, e, nel posto dove è ora, Pete Sandoval e i Morbid Angel non sono compatibili (non serve una crisi mistica per affermare che Illud Divinum Insanus sia una merda ma vabbè, nda).

Cioè?

Beh, ha trovato Gesù. Puoi capire da dove viene l’incompatibilità.

Insomma, dobbiamo rassegnarci all’idea che il batterista dei Morbid Angel sia e resterà il ladyboy asiatico che tutti sospettiamo essere l’amante di David Vincent. Curiosamente ne parlavamo proprio ieri in cucina con Trainspotting e una bottiglia di barbera. Siamo arrivati alla conclusione che, anche se è diventato un sodale del fricchettone di Nazareth, a Pete Sandoval vorremo bene sempre e comunque per tutte le emozioni che ci ha regalato con quella doppia cassa. Sigh:



Festeggiare l’Immacolata con i BEHEMOTH

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(la canzone che fanno ascoltare ai tifosi laziali incarcerati a Varsavia per tirarli su di morale)

Per celebrare in maniera adeguata la festività dell’Immacolata Concezione, ci guardiamo il video girato dai Behemoth per Blow Your Trumpets Gabriel, il primo singolo estratto da The Satanist, il loro prossimo album, in uscita a febbraio. Il video è meno suggestivo e interessante di quello pubblicato un paio di anni fa per Lucifer ma è altrettanto curato e orrorifico, con la giusta dose di sangue e tette:

Il buon Nergal ha descritto i nuovi brani come “molto atmosferici” e “molto emozionali“, in virtù dei riferimenti alla sua lotta contro la leucemia, poi vinta grazie a un trapianto di midollo osseo: “Pensate a Burzum che incontra i New Order che incontrano i Killing Joke“. Addirittura. I Behemoth a piccole dosi non mi dispiacciono ma non mi hanno mai interessato più di tanto, né nel loro periodo black, né nella successiva fase morbidangeliana, né ora, che sono entrati nel novero dei tipici gruppi Nuclear Blast iperprodotti e un po’ indigesti a noi vegliardi nostalgici (certo, sempre meglio che i ragazzini si ascoltino loro piuttosto che i Dimmu Borgir). E poi Nergal mi sta simpatico. Mi è sempre sembrato una persona seria e non si è montato la testa manco ora che in patria è diventato una specie di Vip. Le ultime cronache narrano che, dopo aver fatto da giudice all’X Factor polacco, ha interpretato il ruolo di von Ribbentrop in Ambasada, una commedia a tema nazista. Che carino:

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BRUTAL TRUTH @Traffic, Roma, 12.12.2013

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brutal truth live traffic roma

Si trattava di un vero e proprio mini festival, con cinque band italiane di supporto all’istituzione newyorchese. Arrivo però tardissimo, in tempo giusto per l’ultima parte del concerto dei Buffalo Grillz, alle prese con La canzone del sale, rilettura truculenta e cazzona dello stranoto pezzo di Battisti. Mi avvicino al bar per fare rifornimento e vicino al bancone sta impalato Dan Lilker, lattina in mano, l’espressione un po’ spaesata. Sicuramente non coglie il riferimento. E probabilmente sta un po’ storto, come è giusto che sia. Un santone grindcore dalla ieraticità alimentata da birra e cannoni. Manco io sono al top della lucidità, quindi reprimo l’istinto di scuoterlo per le spalle gridandogli FUCK YEAH DAN LILKER, che se lo faccio cadere poi falcia almeno tre o quattro persone in fila per il cesso, dato che è alto come un cartello stradale. Becco l’ottimo Masticatore, accompagnato da due pali della Staccionata. Grazie per il passaggio al ritorno, pali della Staccionata. Becco anche Livio di Nerdsattack. Parliamo del concerto dei Cripple Bastards di qualche giorno prima e mi infogno in uno degli sconnessi flussi di coscienza esistenziali dei quali cado sempre vittima quando parlo dei Cripple Bastards dopo qualche bicchiere di troppo. Poi decidiamo di dirigerci all’interno che c’è veramente un casino di gente e se non arriviamo tra le prime file poi non riusciamo a vedere bene le facce che fa Richard Hoak quando suona.

Si parte alla stragrande con Birth Of Ignorance e Stench Of Profit, la micidiale doppietta che apre quel fottutissimo capolavoro che è Extreme Conditions Demand Extreme Responses, l’album dal quale la scaletta pescherà di più (ne verrà suonato grossomodo tutto il lato A) insieme all’ultimo End Time, che mi garbò abbastanza quando uscì ma sul quale, lo confesso, in seguito non sono mai tornato più di tanto. Idem dicasi per il precedente Evolution Through Revolution, il disco della reunion. È che i Brutal Truth si erano sciolti davvero al momento giusto. I primi tre full erano tesi, antitesi e sintesi. Quindi tra una Fuck Cancer e una Sugardaddy mi diverto, scapoccio, faccio le cornine ma avverto un lieve e soggettivo calo di tensione. Sticazzi, però, se non si fossero riuniti non li avrei mai visti dal vivo. Poi i Brutal Truth sono uno di quei gruppi che sono fichi per principio, a partire dal nome, uno dei due o tre migliori che esistano. Sono un concetto, sono unici anche se non riesco mai a spiegare bene perché, suscitano un sentimento di esaltazione istintiva e irrazionale, un po’ come gli Slayer. E, soprattutto, sono dei diavolo di personaggi.

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Kevin Sharp is the man

Richard sale sul palco con l’aria del classico bravo vicino di casa americano alla Ned Flanders. Poi si toglie gli occhiali, si leva la maglietta, fa qualche saltello per riscaldarsi e si trasforma in una marionetta manovrata dal caos. Dan Lilker, l’uomo che ha attraversato tre decenni di musica estrema dedicandosi più o meno a ogni genere e finendo per frullare il tutto proprio negli ultimi lavori del gruppo (mentre eseguono il materiale più recente, la mia mente ottenebrata riesce a individuare elementi black metal nei riff), aizza il Traffic a suon di bestemmie, la forma più antica ed efficace di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico metal italiano, e ci ringrazia nella nostra lingua. Violenta il basso come se dovesse dare il tempo a un’invasione di locuste. Approfitta di tutte le pause per fare un sorso. Qualcuno sale ad abbracciarlo. E Kevin Sharp, beh, è Kevin Sharp. T-shirt dei Napalm Death e cappello da cowboy d’ordinanza, è un mattatore con pochi pari. Durante il soundcheck si lancia in un monologo sull’amicizia che diventerà il leitmotiv di tutto lo show, prende in giro una che è collassata sulla spia, strofina la testa a un tizio pelato in prima fila. È l’uomo che tutti noi vorremmo ospite fisso a un barbecue. A sinistra, un po’ in disparte, Dan O’Hare dei Total Fucking Destruction, nuovo acquisto alle sei corde, sembra già a suo agio. Io, in realtà, non sapevo manco che Erik Burke se ne fosse andato.

L’udienza chiede a gran voce Walking Corpse, che arriva nella seconda parte della scaletta, dedicata ai brani più vecchi. La canto a memoria. Se mi ricordo il testo di Walking Corpse significa che il mio incipiente Alzheimer è ancora reversibile. E Collateral Damage, che è la loro You Suffer. Time, che ha il rallentamento più bello e copiato della storia del grind. E quella doccia di shrapnel che è Dementia. Still not loud enough, still not fast enough… Ritmo e intensità salgono, il pogo si fa più violento e l’ultima parte del concerto è una bolgia di stage diving ininterrotto. Kevin ci fa gli auguri di Natale con un altro dei suoi impagabili monologhi. Che adesso a Natale si sta tutti felici in famiglia, non è fantastico stare in famiglia? Bam. I Killed My Family proprio non me l’aspettavo. This song is about ganja… Smoke fuckin’ marijuana! urla Dan. Si chiude quindi con l’allegro manifesto antiproibizionista di Choice Of A New Generation e andiamo a casa felici e realizzati. Ah, già, non vi ho detto come hanno suonato. Come spiegarlo: BRUTAL FUCKING TRUTH (foto scippata a Southern Drinkstruction).

In chiusura, come bonus, un video di Richard che vi insegna a cucinare una testa di maiale alla polvere da sparo. Lo dedichiamo a Nunzio che non è potuto venire.

PS. Se proprio non avete di meglio da fare, vi potete rileggere qui e qui la mia intervista in due parti con Dan Lilker dove ripercorriamo tutta la sua carriera, dagli inizi con gli Anthrax alla reunion dei Brutal Truth. SMOKE GRIND SLEEP.


Joey Jordison lascia gli Slipknot

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Proprio mentre gli Slipknot sembravano pronti a tornare in studio, a cinque anni da All Hope Is Gone, arriva una notizia che rende ancora più incerto un futuro sul cui già non eravamo tutti pronti a scommettere: il batterista Joey Jordison ha lasciato il gruppo per non meglio specificate “ragioni personali”. La band promette di fare il possibile per spiegare in futuro i motivi della separazione (sui quali un’ideuzza l’avrei) e conferma l’obiettivo di registrare un nuovo album l’anno prossimo.

Questo il comunicato ufficiale:

To our Maggots and fans around the world,

“It is with great pain but quiet respect that, for personal reasons, Joey Jordison and SLIPKNOT are parting ways. We all wish Joey the best in whatever his future holds.

“We understand that many of you will want to know how and why this has come to be, and we will do our best to respond to these questions in the near future.

“It is our love for all of you, as well as for the music we create, that spurs us to continue on and move forward with our plans for releasing new material in the next year. We hope that all of you will come to understand this, and we appreciate your continued support while we plan the next phase of the future of SLIPKNOT.

Quali siano le “ragioni personali” lo possiamo facilmente intuire. La lunga stasi degli Slipknot stava diventando troppo frustrante per la creatività irrequieta di Jordison, che aveva speso gli ultimi mesi in tour con il suo nuovo progetto, gli Scar The Martyr, il cui debutto è uscito su Roadrunner lo scorso ottobre. E in una recente intervista con la rivista australiana Loud aveva detto a chiare lettere che, per quanto lo riguarda, gli Slipknot non stanno andando da nessuna parte.

“Ho ancora molto materiale”, aveva spiegato il batterista, “il futuro è radioso per gli Slipknot: non stiamo andando da nessuna parte”. “Sai com’è, ci sono nove tipi eccentrici nel gruppo e ad alcuni di noi piace essere più attivi degli altri”, aveva aggiunto, “al momento il mio lavoro sono gli Scar The Martyr, gli Slipknot non andranno da nessuna parte, ci posso mettere la firma”.

Non si tratta di una perdita da poco. Jordison, oltre a essere amatissimo dai fan, era uno dei compositori principali del gruppo insieme al defunto bassista Paul Gray. Proprio qualche giorno fa il chitarrista Jim Root aveva annunciato che non avrebbe preso parte alla prossima tournée degli Stone Sour (formazione nella quale milita anche il cantante degli Slipknot, Corey Taylor, le cui eccessive attenzioni per la sua nuova creatura hanno avuto un ruolo non indifferente nel congelamento della band madre) per concentrarsi sulla scrittura dei nuovi pezzi. Ma l’addio di Jordison, per quanto non del tutto inaspettato, appare destinato a cambiare decisamente le carte in tavola.


Com’è bella la cappella: i VAN CANTO fanno Badaboom

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Li conoscete i Van Canto, no? Sono quel manipolo di allegroni crucchi che, tra una Köstritzer e l’altra, avevano pensato che sarebbe stata veramente un’idea meravigliosa mettere su un gruppo che reinterpretasse i più grandi successi del metallo a cappella. E già qua ci verrebbe da rivalutare i Neri per caso, che almeno si mettevano d’impegno e non pigliavano in formazione un batterista vero, che così sono buoni tutti. Trainspotting, quando recensì Break The Silence, li definì come una delle cose peggiori mai accadute all’heavy metal. Io, per quanto non mi capaciti di come una persona sana di mente possa definirsi loro fan (e, evidentemente, se sono arrivati a cinque dischi, sarà un mio limite), non sarei così drastico. I Van Canto sono semplicemente una delle espressioni più estreme e genuine di quella propensione tutta teutonica per il cattivo gusto spinto e lo spirito di patata infantile che tramite l’heavy metal ha modo di toccare vette altrimenti irraggiungibili.

È appena uscito il primo singolo da Dawn Of The Brave, fuori il 7 febbraio su Napalm per la gioia di grandi e piccini. Già il fatto che abbiano intitolato il pezzo Badaboom mi ha fatto esplodere il cervello. Ma non avete ancora visto il video:

Scusate, mi ero sbagliato il video è quest’altro qua sotto. La trama è molto affascinante. Si vede questo bruttone pelato che, frustrato dalla sua scarsa perizia con una chitarra che non riesce nemmeno ad accordare, decide – BADABOOM – che, se lui non sa suonare, non dovrà suonare più nessuno. Al che – BADABOOM – manda in giro una sorta di squadra di uomini in nero capaci, facendo BADABOOM con le manine, di far sparire nel nulla le chitarre dei gruppi, in questo caso dei patetici figuranti raccattati per due spicci e un bratwurst alla sagra del crauto di Tuntenhausen che impersonano i Black Sabbath e i Metallica. Se il diabolico piano andasse – BADABOOM – in porto, tutti però sarebbero costretti a cantare a cappella e i Van Canto perderebbero in un BADABOOM il monopolio faticosamente conquistato a furia di BADABOOM, quindi i nostri eroi si mettono in azione e – BADABOOM – distruggono gli uomini in nero con ulteriori BADABOOM provenienti dai loro microfoni. Alla fine il bene vince e il male perde. La conclusione è che i Van Canto sono un’operazione talmente cazzona e intrinsecamente crucca nella sua totale assenza di vergogna che si può pure iniziare a provare qualcosa di simile alla simpatia nei loro confronti. BADABOOM:

BADABOOM is the new AAAAOOAH.

Bella sgnacchera la Inga, alla fin fine.


Skunk Jukebox: viva la muerte

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L’unico motivo per il quale parliamo dei WARFATHER è la presenza in formazione di Steve Tucker, che tanto diede alla causa con i tre dischi registrati con i Morbid Angel prima che David Vincent tornasse e ci insegnasse a vivere tutti hardcore radikult. A due anni dal primo, e finora unico, album del progetto Nader Sadek (che Trainspotting adorò e io, invece, trovo un po’ sopravvalutato), il cantante americano ha mollato il basso per la chitarra e messo su questo quartetto (con altri tre tizi denominati Avgvstvus, Armatura e Deimos, uno dei quali indossa una maschera rituale africana) che, ci spiega, “è più di un gruppo metal; è un sistema di pensiero e un sodalizio di menti, quelle che possono vedere cosa sta realmente accadendo nei tempi che stiamo vivendo“. L’esordio Orchestrating The Apocalypse, che uscirà a gennaio su Greyhaze, sarebbe pertanto “un monito per gli occhi che scelgono di essere ciechi e una chiamata alle armi per le menti che avvertono i mutamenti in arrivo“. Addirittura. Il brano di anticipazione che potete ascoltare in streaming qui, ad ogni modo, non è niente di che. Death/black tecnico piuttosto prevedibile e, allo stesso tempo, privo di una direzione precisa, piagato da una produzione un po’ moscia. Poi magari il disco intero spacca, che ne so.

Ogni volta che esce un nuovo album dei SEPULTURA, mi riprometto di ascoltarlo senza pregiudizi, farmi un bel ripasso di tutti i lavori pubblicati dopo la separazione da Max Cavalera (un paio dei quali credo di non aver mai sentito nemmeno di sfuggita) e scrivere una recensione seria e argomentata. Ahimè, non ci riesco mai. Dopo pochi brani la mia soglia di attenzione crolla e, per quanto mi sforzi, non riesco mai a trovare nulla che mi catturi davvero nel death/thrash hardcoreggiante che suonano ora. Ho stima per Andreas Kisser, che continua a fare la cosa sua con umiltà e coerenza e, qua e là, qualche pezzo che mi fa scapocciare lo trovo pure. Però finisco sempre per essere sopraffatto dalla noia e, ogni volta che ho provato a dare loro una seconda chance, la mia opinione non è mai cambiata in positivo. Purtroppo è andata così anche con il wertmülleriano The Mediator Between Head And Hands Must Be The Heart, al quale mi sono approcciato con la disposizione d’animo più serena che sia possibile a una persona abbastanza vecchia per aver visto uscire Chaos. A.D. Il mio giudizio non è solo condizionato dall’amore nutrito per questa band (oddio, non esattamente questa band) ai tempi nei quali Refuse/Resist era l’inno generazionale per eccellenza dell’adolescente metallaro incazzato. È che proprio non mi dicono niente. Da un certo punto di vista, mi fa più male la totale indifferenza che provo per i Sepultura odierni che il disprezzo che provo nei confronti del mio ex idolo Max Cavalera. Sigh.

Tiriamoci su un po’ il morale con un po’ di thrash metal come si deve, merce abbastanza rara, dato che il 90% dei giovani gruppi che si sono cimentati nel revival del genere ha tirato fuori risultati eccitanti come una partita di bridge con tre zitelle novantenni che si lamentano del tempo durante la pausa cesso di un pellegrinaggio in autobus a Medjugorie (ho provato ad ascoltare il nuovo Savage Messiah, per dirne uno, e dopo cinque minuti mi sono dovuto sparare un’endovena di caffeina). Sentiamoci dunque Marching Over Blood, anticipazione da Divide And Conquer, ultima fatica dei prolifici (cinque dischi in sette anni) ateniesi SUICIDAL ANGELS. Fossimo negli anni ’80, sarebbero delle ottime seconde linee. Ricordano un po’ i Death Angel e, venendo da un paese ridotto in poltiglia, la loro è una rabbia autentica:

Stanno in giro da un pezzo (nacquero dalle ceneri degli Occult; ve li ricordate gli Occult? I loro primi dischi stavano pure nel montepremi del nostro mitologico concorso per trovare un nuovo nome al blog) e si apprestano a pubblicare il sesto full, tuttavia devo ammettere di non aver mai ascoltato fino a oggi una singola nota degli olandesi LEGION OF THE DAMNED. Il pezzo di cui sotto sarà presente su Ravenous Plague, in uscita a gennaio. Banalotti e un po’ plasticosi ma, tutto sommato, godibili, sempre che aderiate al partito che ha continuato a seguire i Behemoth anche dopo Zos Kia Kultus (non al mio, quindi).

Una delle tendenze più deprecabili che sta funestando la musica estrema è il death metal tecnico onanista alla Spawn Of Possession. Sempre più band sembrano convinte che si possa supplire con la velocità di esecuzione e gli assoli di due minuti alla totale incapacità di scrivere canzoni, una tendenza che più che in un vero e proprio sottogenere si traduce in canone estetico applicabile un po’ a tutti gli stili, dal brutal al death svedese (per capire cosa intendo, ascoltatevi i Rivers Of Nihil e i Soreption, per citare due formazioni esordienti che, di per sè, non farebbero manco schifo). A questo punto tanto vale ascoltarsi gli ENTHRALLMENT, dalla Bulgaria con furore. Mummified Ante Mortem, anticipazione di The Voice Of Human Perversity, che sarà il loro quarto disco, non cambierà la vita a nessuno ma almeno fa scapocciare e suona rozza al punto giusto:

A proposito di death tecnico per ragazzini guasti, vi ricordate dei Rings Of Saturn, quelli della polemica sulle parti registrate alla metà della velocità e degli inserti dubstep? Ebbene, adesso abbiamo pure un gruppo slam (ovvero, quella degenerazione del brutal death basata su blast beat a rotta di collo, gurgling sturalavandini e brani interessanti come un editoriale di Pierluigi Battista sulla legge elettorale) con gli inserti dubstep. Se non mi credete, ascoltatevi in streaming qui, Deprive, secondo album dei DISFIGURING THE GODDESS, one man band (ovviamente americana) dietro la quale si cela Cameron Argon, produttore e Dj piuttosto famoso nel circuito dell’elettronica con il nom de plume di Big Chocolate e autore di remix per gentaglia della quale non leggerete mai su queste pagine come Asking Alexandria e Suicide Silence. A dirla tutta, considerando che il 95% delle uscite slam sono un’insostenibile rottura di palle, almeno questi qua ci hanno le parti dubstep che movimentano un po’ la situazione e si distinguono un minimo.

Ci congediamo con il nuovo singolo dei redivivi TRANSPORT LEAGUE. Boogie From Hell è il primo album in dieci anni degli svedesi e, se questa Swing Satanic Swing mantiene le promesse, deve essere una mazzata mica male. Arimortis.


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